Sin da ragazzina ho sempre letto molto. Mia madre a un certo punto, sfinita per le continue richieste di nuove storie, ha deciso di portarmi in biblioteca. Prima quelle delle scuole in cui lavorava, poi quella comunale.
Le ricordo sempre deserte, lo sguardo delle bibliotecarie di turno illuminato alla vista di una bambina che di settimana in settimana divorava quei volumi ancora intonsi.
Ho quindi pian piano coltivato il sogno di scrivere un giorno un libro tutto mio, con una di quelle trame thriller così arzigogolate da riuscire a stupire i lettori.
Da adolescente ci ho anche provato! Prima a scuola poi in qualche concorso regionale. I risultati sono stati buoni. Con l’età adulta la passione per i libri è rimasta, così come quella per la scrittura, quel che è venuto meno è stata la fiducia nelle competenze unita allo scontro con il piano di realtà: quel sogno forse non era così unico, molti lo hanno avuto prima e dopo di me e poi, di scrittura, in Italia quanti ci campano?
Ho volto lo sguardo altrove e, senza aver ancora chiaro il perché, ho deciso che psicologia potesse essere una buona alternativa per il mio percorso.
Con il tempo mi sono allontanata dall’idea di scrivere per qualcuno, pur tenendo vivo il gusto di farlo per me stessa, per questioni universitarie e professionali.
Solo di recente mi sono accorta di quanto in maniera del tutto non intenzionale e in modo meno attivo io quel sogno che avevo da ragazzina lo sto realizzando.
Ogni giorno nel mio studio accolgo storie. Persone in primis, che raccontano spesso delle loro vicende lamentando staticità, monotonia, eventi tragici o dolorosi. Piano piano con il racconto delle loro vicende ecco che una trama prende forma.
Tutto ha una coerenza, un filo logico costruito da episodi finemente legati da nessi di causa-effetto. Sin da subito mi interesso: primariamente di sintomi, della loro storia, di quando sono comparsi, di come sono comparsi, delle soluzioni trovate per gestirli fino all’arrivo nel mio studio.
Con il tempo la lente si allarga, parliamo degli amici, delle relazioni sentimentali presenti e passate e della famiglia.
Come in una stesura a quattro mani costruiamo il senso che la propria storia ha assunto fino a quel momento con l’obiettivo comune di provare a rileggere i fatti da angolature differenti, nuove.
Per alcuni questa enorme metafora sembra più semplice, affine al loro modo di vedere il mondo, per altri invece è un po’ più confusa. In entrambi i casi la strada da percorrere ha tappe similari: dal cosa è successo, proviamo a osservare il quando. Già solo questo piccolo espediente narrativo cambia l’angolatura d’osservazione. I nessi causa-effetto ben solidificati piano piano si allentano ed ecco che tracciamo insieme un filo temporale che appaia o raggruppa gli eventi secondo criteri del tutto nuovi, spesso stupefacenti.
Per me il momento in cui chi ho davanti trova questi nuovi nessi è pura magia. Quel pezzetto di sè è sempre stato lì, modestamente celato dietro cumuli di routine, di strategie solidificate, certe volte incancrenite ma fino a quel momento indispensabili.
Gli espedienti narrativi principali che ci hanno permesso di arrivare lì sono fondamentalmente due: il corpo e le emozioni.
Il primo viene spesso messo a margine, relegato a mera macchina, come se, per scrivere un libro, la carta delle pagine e il cartoncino della copertina non fossero fondamentali affinché la storia prenda forma! Il corpo, spesso ignorato, altre volte maltrattato, altre ancora iper-attenzionato.
La fatica di ascoltarlo è palpabile, ogni tanto si leva una voce che chiede “ma a che ci serve?”, la mia risposta è variabile ma sinteticamente potrebbe essere riassunta così: “perché non dovrebbe servirci se sta lì?”.
Osservare il corpo permette di intensificare la trama, delineare meglio i dettagli del protagonista e di tutti gli altri personaggi che partecipano alla storia. Un sopracciglio che si alza prende significati a volte inaspettati e genera tumulto nella pancia. Le corde vocali che graffiano e fanno venir sù quella voce roca fanno improvvisamente comparire pesi sul petto. E da questi dettagli è possibile tessere una storia, un racconto dettagliato della propria esistenza.
Le seconde invece vengono molto spesso addobbate con parole similari che spaventano meno: la rabbia diventa fastidio, nervoso, prurito; la tristezza diventa mal umore, stare giù, fiacca; il disgusto diventa antipatia, repulsione, ancora fastidio; la paura inesistente, d’altronde di cosa dovremmo avere paura in questo mondo occidentale?; la felicità quasi sempre citata come grande assente .
Quando prendono forma, comunque, si inizia ad usarle in modo maldestro, a volte confuso, tentennate, timido. Ma comunque si iniziano a usare! Proprio lì ecco che la storia si colora di sfumature un po’ più chiare, i contorni si delineano e la trama diventa ancor più lineare. Alla fine sono appena 5, stanno lì a susseguirsi senza sosta a intensità variabili ma ci accompagnano sempre, non possiamo farne a meno. Il fatto che ci siano ci segnalano che la trama può proseguire.
Quando il primo e le seconde si allineano poi ecco la raffinatezza di stile! La storia non è più unidimensionale, si arricchisce dei dettagli e dona la possibilità, da lì in avanti, di maneggiare tutti questi pezzetti con più abilità, di conoscerli e avere la possibilità di scegliere che svolta dare a quel racconto, il proprio.
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